Inizia come una distrazione: “Dopo pranzo accendiamo la LIM“. Un paio di sguardi interrogativi, poi una scrutatrice tira un passante in mezzo ai dubbi: “La finale inizia dopo le tre, vero?”. E tutti annuiscono: oggi gioca Sinner, come no. Il Roland Garros, durante le prime ore di voto, si presenta come il modo per ingannare la lentezza di un referendum che pare sconfitto in partenza. Tutto il contrario di Jannik: lui è il numero 1 al mondo, con Alcaraz è battaglia garantita. In tarda mattinata un altro abbocco: “Ma la Errani e la Paolini hanno vinto?”. Il seggio annuisce. Venti minuti dopo una signora ritira la tessera elettorale: “Grazie, buona giornata. Ma Jasmine ha vinto, vero?”. La chiama per nome perchè il tennis azzurro, come un magnete piovuto dal cielo, attrae generazioni che fino a qualche anno fa credevano che il corridoio fosse solo un passaggio della casa da spolverare il sabato. Jasmine è una di famiglia, come Muso, Berretto, Sarita. E Jannik.
Già, Jannik. Le prime ore del pomeriggio, mentre Sinner e Alcaraz flirtano con la possibilità del break durante il parziale d’apertura, offrono una smentita e una conferma. La prima riguarda il referendum: la sezione appartiene a uno dei Comuni più virtuosi non solo della Toscana. Ma di tutta Italia. Arrivano a frotte: ragazzi del 2007 imperlati dall’emozione del primo voto, orgogliosi classe ’34 che protestano scherzosamente perchè le matite copiative non sono esattamente temprate come i due gladiatori dello Chatrier. Anzi, si rompono in continuazione. A proposito, la conferma pomeridiana riguarda i duellanti nell’arena parigina: è battaglia garantita, si andrà ampiamente oltre i tre set. Lo sanno persino i poliziotti di stanza al seggio, davanti al computer che si improvvisa maxischermo per avventori e simpatizzanti: “Oggi è lunga, quell’Alcatraz è forte” mormora un agente al collega. Un cinquantenne fresco di voto gli risponde: “Va bene che è vestito come un carcerato, ma si chiama Alcaraz”. E giù risate. Che poco dopo diventano grida di esultanza: 6-4 Jannik, il primo set è azzurro.
Il referendum rallenta, anche se l’affluenza (a livello locale, non nazionale) è già superiore al 25%: “Da un’ora è calato il numero di elettori. Saranno a vedere la partita…” sentenzia il presidente di seggio. E comincia a fare caldo. Il segretario, che durante le ore di voto molla le scartoffie e diventa un coltellino svizzero pronto ad ogni utilizzo, si propone come fattorino del gelato. L’idea è senza discussioni come un 6-0. Nel seggio, intanto, Sinner raccoglie un capannello dietro l’altro: alla sezione si comincia a collegare un telefono in pianta stabile, perchè la LIM risponde scorbutica. Un po’ come Jannik quando c’è da alzare la pressione: due fendenti per allungare durante il tie break, anche il secondo set finisce a casa Italia. Il pomeriggio è troppo azzurro.
L’ora dell’aperitivo porta con sè i primi dubbi: “Ma Carlos sta mollando, vero?”, chiede un signore dopo il passaggio in cabina. Lo scrutatore, uscito appositamente dalla sezione per buttare un occhio al maxischermo dei poliziotti, è perplesso. Parrebbe andar tutto per il verso giusto: pronti-via e al terzo set Jannik strappa il servizio dell’avversario. “Ci siamo, ci siamo” mormora la scrutatrice. Il segretario non è convinto: ci sarebbe da chiamare il Comune per il dato sull’affluenza, ma la partita lo sta assorbendo: “Dopo questo punto vado” ripete. Anche se i cambi campo si susseguono che è un piacere. Alla fine la comunicazione la fa, ma in ritardo e anche un po’ sconsolato: Alcaraz accorcia le distanze, si va al quarto set.
Al seggio ora c’è un tifo da stadio. Il Roland Garros cancella ogni gerarchia: nella sezione basta un telefono a riunire presidente, segretario e scrutatore. Un punto di Jannik restituisce persino vitalità al momento di annotare i nomi sui registri e se ne accorge una elettrice: “Ma se fa punto il morettino cosa fate, sciopero?”. Quello forse no, ma di sicuro un’imprecazione scappa a tutti. Tranne a Jannik: lascia a zero Alcaraz e gli estirpa il servizio salendo sul 4-3. Inizia il fuggi fuggi dall’aula: alle urne rimane solo una scrutatrice (che comunque qualche accenno di interesse l’ha dato a suon di “ma a quante ore di gioco siamo arrivati?“), mentre lo schermo dei poliziotti diventa maxi per davvero. Sono tutti lì mentre Alcaraz serve per rimanere in partita. Ma Sinner lo fulmina un punto dopo l’altro: 0-40. Un elettore sfreccia via dalla cabina elettorale e irrompe nel corridoio degli agenti: “È match point?”. “Sì!” risponde insospettabilmente un’anziana dall’interno di un’altra sezione. Nel frattempo un corpulento quarantenne deposita la scheda, riprende in mano il telefono e si connette subito ad Eurosport. Di fronte a lui c’è il maxischermo dei poliziotti, lui fa spallucce: “Il mio è avanti di cinque secondi…”. Così il nerboruto può assistere per primo al capolavoro di Alcaraz che cancella tre match point. Anzi, tiene il servizio e allunga la situazione al tie break, stavolta vinto. Due a due: “Ordiniamo le pizze durante il quinto?”.
Il rider arriva nel momento peggiore per distacco. Quello in cui Alcaraz, sfondata la quota delle cinque ore, serve per il match. Lo scrutatore agguanta la busta che comprende anche le bibite, ma le concede un viaggio brevissimo scaricandola immediatamente su un banchino accanto ai poliziotti. La pizza, mentre Carlos è avanti 5-4 nel set decisivo, è la seconda urgenza della serata. La prima è ripristinare la connessione sul maxischermo degli agenti: il computer fa le bizze ogni tre scambi, il poliziotto venuto dalle zone più dimenticate d’Italia lancia un’imprecazione riconoscibile ad ogni latitudine. Anche nel virtuosissimo seggio fiorentino, dove si continua a votare e tifare. Quando Sinner fa il miracolo tornando sul 5-5 parte un urlo, poi è tempo del tie break decisivo. Uno dei presidenti di sezione ha dubbi: “Ma quali sono le regole del tie break al quinto set?”. Semplice: chi ha meno vesciche sotto le scarpe vince. E l’indiziato, purtroppo, è quello con la divisa da carcerato: sette punti sfavillanti, come a Pechino l’anno scorso. Solo che stavolta c’è di mezzo un alloro Slam. L’angolo dei poliziotti si spopola, Alcaraz trova il decimo e decisivo affondo con un lungolinea che racconterà ai nipotini. Il seggio si zittisce.
Una scrutatrice ci ride su: “E ora chi ci parla col babbo? Tiene più a Sinner che a me”. Perchè Jannik, come Jasmine e gli altri, è uno di famiglia. Lo sanno anche i rappresentanti di lista: “Ma come ha fatto a perdere? È vero che ha avuto tre match point?“. È vero, signori. Ma se il tennis lo chiamano lo sport del diavolo, un motivo ci sarà. Nel buio della cabina elettorale Dio vede te, ma prima ha indossato la sciarpa azzurra per tifare Sinner. La pizza, intanto, si è raffreddata ed è il momento di un’altra comunicazione sull’affluenza: “A quanto stiamo? È alta?”. È altissima, segretario. Da quorum, forse. Peccato che i dati nazionali smontino l’illusione: il referendum, come il dritto di Sinner durante uno di quei maledetti match point, non passa. A pensarci bene la vita politica è come il tennis: si gioca ben distanziati, ognuno sulle proprie posizioni, separati da un ostacolo. In entrambi i casi, spesso, una buona battuta aiuta.