Notizie in Tempo Reale dal Territorio

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

LE COSCIENZE NELLA NEVE






Nella terribile guerra di dissoluzione della ex Jugoslavia alla fine del secolo scorso, il nome di Bihac divenne noto per l’assedio serbo che dal 1992 al 1995 cancellò di fatto quella denominazione di zona protetta che la città aveva ottenuto insieme ad altri centri, come Srebrenica, divenuti poi teatro di sanguinosi massacri. Oggi a Bihac non si spara più, ma in quegli ostili boschi al confine con la Croazia si consuma nella stessa indifferenza di allora un dramma che segna con fermezza la linea tra i sommersi e i salvati del mondo.

Dal 2018 la Bosnia è divenuta l’ultima tappa di decine di migliaia di migranti che attraverso il Medio Oriente prima e la linea balcanica poi si mettono in marcia per raggiungere quel sogno chiamato Europa: arrivano prevalentemente da Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e Iran, portandosi dietro un bagaglio non più misero delle prospettive che avevano nei paesi d’origine. La porta del paradiso assume per loro la forma della frontiera croata, oltre la quale la possibilità di un futuro nella civile e ricca Europa rende sopportabili anche mesi di cammino e sofferenze.

Accade però che quella ricca e civile Europa i migranti non li voglia, e che quella frontiera croata da porta del paradiso divenga una barriera invalicabile. Shahram Khosravi, ex migrante iraniano illegale divenuto professore di Antropologia a Stoccolma, si domandava: “Che cosa vedremmo se il confine lo guardassimo stando dall’altra parte?” Se provassimo ad entrare nei corpi delle persone che lo guardano nei pressi di Bihac, forse correremmo a buttare giù quella barriera, giudicando ciò che sta avvenendo in quei luoghi come del tutto inumano.






Nel piccolo villaggio di Lipa, lo scorso dicembre un incendio di cause ancora poco chiare ha distrutto il campo profughi: da allora in condizioni disastrose vivono circa 1500 persone, aggrappate ad una speranza che le manganellate dei poliziotti croati indeboliscono ogni volta che qualcuno prova a passare “di là”. D’inverno fa freddo in Bosnia. Le temperature scendono di molti gradi sotto lo zero, e la neve si innalza ricoprendo ogni cosa.

Senza servizi igienici, costretti a lavarsi nei torrenti di montagna, i migranti affrontano nel campo semidistrutto una invivibile quotidianità. Alcuni sono riusciti ad avere un tetto sopra la testa grazie alle tende montate dall’esercito bosniaco, che li sorveglia a vista: dentro, ognuno ha 3 mq di spazio, branda compresa. Altri hanno trovato rifugio negli squat, gli immobili abbandonati trasformati in dormitori di fortuna.

Per scaldarsi qui si utilizzano rifiuti di plastica, e un grande fumo nero si alza verso il cielo. Al campo si vedono lunghe code per ricevere una razione di cibo, che è scarso per tutti. I più fortunati hanno le scarpe e una coperta sulla spalle, mentre molti avanzano a piedi scalzi nella neve, con gli occhi persi nel vuoto e il viso tagliato da un vento glaciale. Le campagne in cui questi disperati si trovano da mesi a tentare di sopravvivere non sono più ricche e floride dei territori da cui essi provengono: la Bosnia-Erzegovina è un paese povero, con un’economia stagnante e tensioni sociali lasciate in eredità dalla guerra e che nutrono la diffidenza dei locali verso lo straniero.

Ciononostante, secondo il commissario europeo per la gestione delle crisi Janez Lenarčič un tale disastro avrebbe potuto essere evitato “se le autorità avessero creato sufficienti capacità di riparo per l’inverno”, sfruttando anche i finanziamenti europei per un centro d’accoglienza vicino Bihac. Sarebbe tuttavia semplicistico e pilatesco scaricare sulla Bosnia tutte le responsabilità. L’Unione Europea ha reso palese di non voler affrontare la crisi sul suolo comunitario, facendo il pesce in barile sui vergognosi mezzi di respingimento adottati dalla polizia croata e riempiendo le casse della Bosnia di milioni di euro per far sì che quest’ultima gestisca da sola il flusso migratorio, sullo stile degli accordi fatti con la Turchia di Erdogan e nell’illusione che migliaia di persone possano essere tenute alla porta senza problemi.

La verità è che a nessuno importa nulla di quanto sta accadendo a Lipa. Di fronte ad una catastrofe umanitaria con pochi precedenti, la civile Europa dimostra per l’ennesima volta la propria bancarotta morale, spezzata solo da isolate voci di umana compassione come quelle dei quattro europarlamentari italiani che a gennaio sono andati in quei luoghi per raccontare la tragedia in atto. Le nostre coscienze probabilmente sono da anni naufragate insieme ai morti del Mediterraneo, ma se così non fosse non v’è dubbio che adesso si sono perdute del tutto nella gelida neve di Bihac.






Torna in alto