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La Storia non è faziosa






LA STORIA NON E’ FAZIOSA

Il 10 febbraio si celebra nel nostro Paese il Giorno del Ricordo, data istituzionalizzata nel 2004 per ricordare le vittime delle violenze del biennio ’43-’45 nei territori del confine orientale, gli infoibati dai partigiani di Tito e la marea di esuli italiani che fu costretta lasciare l’Istria, Fiume e la Dalmazia.

Questa triste pagina di Storia è stata avvolta da un alone di nebbia e ostilità per molti decenni, finché la storiografia non ha iniziato a studiare con attenzione i documenti e le fonti, inglobando l’accaduto in un contesto più ampio e facendo luce su responsabilità e fatti incontestabili; uno degli studiosi di riferimento sull’argomento è il Prof. Raoul Pupo, docente di Storia Contemporanea all’Università di Trieste e autore nel 2005 del saggio “Il lungo esodo”.

Alla vicenda delle foibe, come d’altronde a tutti gli altri eventi storici, ci si dovrebbe approcciare in maniera non strumentale e in ossequio ai fatti, come appunto fa la ricerca storiografica, ma purtroppo tale argomento viene macchiato dalla faziosa propaganda politica sia dell’estrema destra che dell’estrema sinistra: se dalla prima parte si parla del dramma delle foibe per trovare un contraltare del Giorno delle Memoria e attaccare il mondo comunista tout court, tralasciando ciò che precedette le violenze titine, dall’altra si alza la voce per negare o quantomeno minimizzare la vicenda, nell’idea che tutte le vittime fossero fascisti e che dunque la violenza fosse giustificabile.






Partendo dalla propaganda nera, i gruppo politici che fanno riferimento a questa galassia o le sono affini utilizzano le foibe nell’ottica di un becero nazionalismo aggressivo, di una contrapposizione etnica che rimanda alle pagine più buie del passato. Questo approccio mistifica la realtà (nella stessa retorica fascistoide che esalta D’Annunzio come fascista della prima ora, ignorando o volendo nascondere l’astio profondo del Vate verso il fascismo), e soprattutto parla delle foibe come se prima di esse non ci fosse stato niente: è fondamentale ricordare invece che durante il Ventennio la minoranza slava in quelle terre fu oggetto di persecuzioni e limitazioni dei diritti poiché considerata razza inferiore, con violenze e soprusi che anticiparono la reazione dei partigiani di Tito dopo il ’43.

Anche i numeri cadono con facilità nella mistificazione, con cifre ingigantite o del tutto inventate; di nuovo viene in soccorso alla verità la storiografia, che ha accertato il verosimile numero di 5000 morti nel biennio ’43-‘45 e di 250.000 esuli italiani. Questi sono dati reali, e non contrastabili, neppure dall’estrema sinistra che quasi tende a negarli: infatti il revisionismo rosso non è meno deprecabile di quello nero.

Dopo il 1943 le truppe partigiane di Tito inaugurarono una sanguinosa stagione di vendetta, che toccò il suo culmine nel mese successivo all’occupazione di Trieste nel maggio del ’45: ad essere arrestati e uccisi non furono soltanto ufficiali fascisti, ma anche carabinieri, membri del CLN, socialisti, comuni cittadini. Migliaia di persone innocenti furono rinchiuse in campi di prigionia o gettate nelle cavità naturali chiamate foibe, uomini e donne aventi l’unica colpa di essere italiani.






Al loro dramma si aggiunse poco dopo quello della massa di esuli costretti a lasciare l’Istria, Fiume e la Dalmazia, divenute jugoslave, per rifugiarsi in Italia, dove per lungo tempo furono emarginati e considerati un corpo estraneo, dei diversi.

Non si può negare la sofferenza della gente italiana del confine orientale, ed è doveroso ogni anno ricordare chi dovette lasciare la propria terra e chi finì barbaramente ucciso e gettato in una foiba, così come non si può utilizzare questa vicenda come un vessillo da agitare per disgustosi fini politici. La memoria ha sempre una dimensione privata ed una collettiva, ma la Storia è fatta di vicende che abbiamo il dovere di trattare con sguardo consapevole, informato e mai strumentale.

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