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Sono le 12:10 quando la porta di “Terapia intensiva e subintensiva” si apre dinnanzi a noi.
Siamo al secondo piano dell’Ospedale di Santa Maria Annunziata di Bagno a Ripoli, guidati dal Dottor Vittorio Pavoni, Primario del reparto che ospita i pazienti Covid più critici.
Al piano terra un termometro ci ha misurato la temperatura, dunque la domanda di rito:
“Perchè siete qui”?
Passato il primo esame, entriamo in corsia.
Il dottore chiede: “Possiamo?”
Si. Un’ora prima del nostro arrivo una persona contagiata ha attraversato il corridoio e l’area è stata immediatamente sanificata. Possiamo!
Ci vestono di ogni DPI necessario: tuta protettiva, sovrascarpe, mascherina. Ci risparmiano la cuffia. Dunque l’elenco dei doveri: “Potete andare e fotografare in corridoio e nella stanza dei monitor, non all’interno della sala dove sono ricoverati in sicurezza le persone affette da coronavirus.”
Tutto chiaro.
Il reparto di Terapia Intensiva misura circa 50 metri, contiamo quattro pazienti in cura: due indossano il CPAP, ovvero il casco che aiuta l’ossigenazione nei soggetti che hanno difficoltà respiratorie. Reagiscono bene ma non sono fuori pericolo. Dopo quello, c’è l’intubazione. Tifiamo per loro.
Tra infermieri, dottori, operatori socio-sanitari gravitano in corsia circa 20 professionisti: malgrado il contesto e lo stress, ci accolgono col sorriso celato dalla mascherina, leggibile dagli occhi.
“Ci sono oltre 100 ricoverati Covid in tutto l’ospedale, ogni reparto di medicina è ormai allestito per accogliere i positivi. Soltanto la chirurgia d’urgenza ed alcuni posti letto intensi adibiti nelle sale operatorie sono rimasti locali no-Covid.”, spiega il Dott. Pavoni.
“Ogni giorno entrano dai 5 ai 15 soggetti ai quali viene effettuato il tampone, molti sono positivi e restano in ospedale per circa due settimane.”
Com’è la situazione?
“Il momento di massima pressione è alle spalle, adesso è iniziata la fase discendente ma niente è ancora risolto. Dieci giorni fa avevamo la “Terapia Intensiva” affollata di 12 pazienti più altri 4 gravi in malattie infettive e 2 al Pronto Soccorso. A fine mese dovremo valutare nuovamente l’andamento del virus: per ora, però, riteniamo necessaria la disposizione del Governo di prolungare le restrizioni fino al 4 Maggio.”
Sono le 12:40 circa, alle 13:00 avverrà il cambio turno degli infermieri impegnati in reparto. Ne approfittiamo per strappare ancora qualche informazione al Primario: qual è l’età media dei ricoveri?
“60-70 anni. Abbiamo avuto due persone 80enni, una è riuscito a guarire, l’altra, purtroppo, non ce l’ha fatta. Tra i pazienti annoveriamo anche un giovane di 30 in condizioni critiche.”
E’ ora di lasciare il Dottore, tra poco dovrà entrare in sala per curare i pazienti. Nel frattempo Chiara, una giovane infermiera, coordina il passaggio di consegna tra il primo e il secondo turno. Disposti in cerchio, gli operatori pronti ad “attaccare” annotano su taccuini personali gli sviluppi della mattinata.
Organizzazione ed efficienza. Uniti ad una sensibilità che colpisce.
Nel dramma di una malattia che mina corpo e socialità, l’umanizzazione delle cure diventa terapia. Fondamentale, vitale.
“Cerchiamo di essere presenti e dialogare con loro quando possibile. Ogni giorno il medico di guardia chiama i familiari per aggiornarli sulle condizioni del ricoverato, consentiamo chiamate e, grazie alla donazione di sei tablet con schede sim incluse, li mettiamo in videochiamata con i parenti.”
Sono le 13:05, c’è fermento in corsia. E’ l’ora di entrare nella stanza di isolamento per monitorare i pazienti. Non prima di aver indossato ogni accessorio che tale non è: Maria, infermiera, si fa spazio nella divisa bianca in materiale tyvek che la copre da testa a piedi. Dunque guanti ed occhiali protettivi. Arrivano Vittorio e Nino, dottore ed infermiere: per loro la tuta è color marrone chiaro. I colleghi smorzano la tensione, alcuni scherzano, altri porgono un aiuto per sistemare occhiali e mascherina in maniera ottimale. E’ questa la prima linea che ogni giorno i telegiornali citano, la “trincea” invocata con insistenza sui social.
La mente corre al parallelismo bellico e alle frasi fatte sul web, alle opinioni, tante e inutili: di fronte a quegli “astronauti” che non andranno nello spazio, la realtà spazza d’un colpo il virtuale. Non ci sono etichette da eroi in quelle divise che ingombrano bensì persone e professionisti competenti, chiamati al loro lavoro sotto la pressione di un’emergenza.
Prima di staccare, con il pennarello nero, un’infermiera del primo turno scrive il nome sulla divisa di chi sta per lanciarsi nel fuoco intrecciato del virus, dentro la stanza di isolamento.
“Altrimenti non ci riconosciamo”.
Maria e Nino diventano Mary e Ninuzzo.
C’è anche spazio per un bel cuore, un pò porta fortuna, un pò messaggio di affettiva condivisione:
“Con te entriamo tutti”.
Una foto al momento: quel disegno familiare sotto al nome ci appare la miglior etichetta possibile.
Dietro alle mascherine che alterano la fisionomia e agli occhiali che nascondono lo sguardo, c’è molto (ma molto) di più.
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