Molto rumore per nulla, qualcosa di shakespeariana memoria. Una delle settimane più penose degli ultimi anni della Repubblica italiana si chiude con un nulla di fatto. O meglio, con una Restaurazione che sa molto di “non c’erano alternative, tanto vale affidarsi a chi questo mestiere lo sa fare”. Leggasi Sergio Mattarella, che con ogni probabilità avrebbe preferito godersi la pensione in Sicilia piuttosto che avere a che fare con quell’insieme di bieca inettitudine che è divenuto il Parlamento.
Mattarella, ancora lui. La Costituzione dice che si elegge un Presidente della Repubblica ogni sette anni, salvo sconvolgimenti. Stavolta non c’è stato alcuno sconvolgimento: eletto nel 2015, ha chiuso il mandato nel 2022. Questo significa che tutte le forze politiche hanno avuto almeno un anno per pensare ad una candidatura seria, credibile, in grado di raccogliere un’eredità così pesante. In un anno di tempo quali splendide idee sono state partorite? Poco più di zero, con uno sviluppo del dibattito a dir poco imbarazzante.
Ecco perché con la rielezione di Mattarella, anche in ottica elezioni parlamentari dell’anno prossimo, non ha vinto nessuno.
Partiamo dalla sinistra. Potevano esserci nominativi interessanti per una forza politica come il Partito Democratico che pretende ancora di ergersi come paladino dei lavoratori e dei diritti delle donne. Si poteva parlare della Cartabia, la prima figura femminile a rivestire il ruolo di Capo dello Stato, tramontata dopo poco. Si poteva credere un po’ di più nella Belloni, nonostante a qualcuno non andasse giù il fatto che fosse ai vertici dell’Intelligence. E invece no: Letta, che al tavolo da poker dei partiti si è presentato con poche fiches e non ha giocato mezza mano, ha detto “forse sì” a Draghi, Casini e Mattarella. Nulla di più.
Al tavolo da poker ha giocato Matteo Renzi, che nonostante vanti un pugno di parlamentari vorrebbe sempre recitare il ruolo dell’ago della bilancia. Voleva imporre Casini, il trasformista per eccellenza della Repubblica italiana. Alla fine ha ripiegato su Mattarella pure lui.
Poi i CinqueStelle. Hanno detto di no ad Amato, Casini e Cassese. Come Letta, anche Conte evidentemente è finito al tavolo controvoglia. Probabilmente avrebbe preferito puntare qualcosa sulla roulette, piuttosto che giocare a poker con Salvini. E si è adeguato.
Ecco, Salvini. Voleva dare le carte lui. Fare l’uomo di raccordo e unire le forze politiche dimostrando di non essere più il “cattivo” della politica italiana. E invece ne esce sconfitto. Aveva proposto più nomi lui di tutti gli altri, è vero: ma erano degli incandidabili, soprattutto Letizia Moratti che deve aver fatto rizzare i peli sulla schiena a tutto il Parlamento. Per non parlare della candidatura della Casellati, troppo impegnata al cellulare per seguire attentamente quello che doveva essere lo scrutinio per la sua elezione. Praticamente si è colpita da sola, come i Pokemon confusi delle prime generazioni. Se c’è qualcuno che ha perso, è Salvini.
Insieme alla Meloni, che ha avuto la coerenza di opporsi da subito al Mattarella-bis. Voleva altro, la leader di Fratelli d’Italia: non l’ha ottenuto. Più tendente al pareggio Forza Italia: la squadra di Berlusconi è a fine ciclo più della Juventus di Allegri, e ha cercato il suo Vlahovic in Amato prima e nella Casellati poi. Niente da fare.
La verità è che le forze politiche, nessuna esclusa, sembrano squadre in lotta per non retrocedere, altro che vincere lo scudetto. I tre punti non se li è presi nessuno, nella corsa per il Quirinale.
Quale sarà la partita chiave per la “salvezza” dei partiti? Le elezioni dell’anno prossimo. E lì sarebbe facile pronosticare il vero vincitore: l’astensionismo del popolo. Che continua a soffrire i problemi di crisi economica e sanitaria da ormai due anni, e allo stesso tempo è costretto ad osservare un migliaio di politicanti mentre scrivono “Amadeus” e “Craxi” sulle schede elettorali. E qualcuno ci ride pure.