“I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala e sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale”.
Queste parole di Amedeo Bordiga, pronunciate il 21 gennaio 1921 al Congresso di Livorno, sancirono la definitiva spaccatura all’interno dei socialisti e l’avvio di una nuova storia per la sinistra. Cent’anni fa nacque così il Partito Comunista Italiano, pagina incancellabile dell’Italia del Novecento e testimonianza di un’irripetibile stagione politica e sociale, oggi divenuto un ricordo lontano, una nostalgia perduta, un mito sbiadito.
La scissione di Livorno fu la naturale conseguenza della strategia rivoluzionaria voluta da Lenin nel 1919, quando con la Terza Internazionale i partiti socialisti vennero invitati a cambiare il loro nome in comunisti e ad espellere tutti i minimalisti che prediligevano un’azione graduale e riformista. In Italia la linea sovietica fu sposata da Amedeo Bordiga, fondatore della rivista “Soviet”, e da coloro che gravitavano intorno a “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini.
Il PCI, che nell’art. 1 dello statuto si poneva come obiettivo principale l’ “abbattimento violento del potere borghese”, si ritrovò subito come una fucina di intellettuali e di teorici del marxismo, stroncata già nel 1926 dalla repressione fascista che mise il partito fuori legge; rinato nel 1944, dopo aver rappresentato la forza più incisiva nell’attività di opposizione clandestina al regime, il PCI prese parte al CLN e fu protagonista nella Resistenza e poi nella ricostruzione politico-istituzionale del Paese.
Dell’Italia repubblicana e democratica il PCI è stato per oltre quarant’anni un riferimento di popolo, la bandiera di un’ideale, un qualcosa ben al di sopra di un semplice partito in un età in cui comunque questo termine aveva ancora un significato aulico e rappresentativo. Nella piena realizzazione della politica di massa, nella partecipazione attiva della gente in nome di principi e valori ai quali consacrare tutta una vita, il PCI si ritrovò ad essere la voce del riscatto e della giustizia sociale, dell’uguaglianza e di una libertà diversa da quella americana.
Non fu mai forza di governo, pur rappresentando milioni di italiani (quando l’affluenza era all’80%) e arrivando, alle elezioni europee del 1984, a superare la DC con lo storico 33,3%. Contraddizioni, correnti, inflessibilità verso voci dissidenti ed “eretiche”, errori: c’è anche tutto questo nella parabola del PCI, schiacciato e svuotato dalla sconfitta storica del comunismo e costretto a spegnersi, nel 1990, con la svolta della Bolognina di Occhetto. Passaggio inevitabile, dopo la caduta del Muro e la crisi di un modello che aveva perso la propria spinta propulsiva e aveva dimostrato una volta al potere di trasformarsi in un mostro brutale e sanguinario, incarnato in dittature liberticide, grigie e criminali. Il comunismo sovietico e dell’Est Europa è stato fagocitato dalle proprie debolezze, e il nostro PCI non ha avuto per troppo tempo la capacità di prenderne le distanze, almeno prima di Berlinguer.
Ma accanto all’immagine di regimi repressivi, vi è per fortuna stata un’altra immagine, quella di una meravigliosa utopia, rivelatasi forse irrealizzabile ma in grado di migliorare la vita dei milioni che in essa hanno creduto. Lo slancio verso una società più giusta ed equa ha tenuto insieme in Italia la più grande forza comunista dell’Europa occidentale, una famiglia sociale fatta di appartenenza, militanza, liturgia politica radicata nei territori e capace di coinvolgere ed unire.
L’anima del PCI, quella delle Case del Popolo, delle Feste dell’Unità, delle grandi manifestazioni e della passione ideologica, pura e disinteressata, riesce ad emozionare anche chi come noi quella stagione non l’ha potuta vivere; anche a trent’anni dalla fine del partito, e a cento dalla fondazione, siamo in grado di coinvolgerci ricordando le parole dei nonni che descrivevano con gli occhi illuminati la lotta, le sofferenze e l’orgoglio di stare da quella parte, o incappando in qualche cimelio di propaganda, o guardando le immagini del funerale di Berlinguer, in un mare di lacrime e bandiere rosse.
Del PCI che compie un secolo oggi non è rimasta traccia nella politica italiana, e toccare questo tasto è l’ultima cosa che il vecchio partito di Botteghe Oscure merita in un simile giorno. Meglio perdersi nei ricordi, nella nostalgia, ricercando quella passione che Giorgio Gaber alcuni anni fa riuscì ad evocare in un’immortale poesia:
“Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. […] Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno. Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”.