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Sono sempre i migliori che se ne vanno…

Nell’affranto e inconsolabile establishment italiano la speranza per qualche ora è stata viva.
Riunita idealmente intorno al Calvario di Palazzo Chigi, la crema italica ha pregato con tutta la sua fede affinché il Messia di Città della Pieve risorgesse e riprendesse le redini del Paese; alla fine si è dovuta arrendere all’evidenza che la resurrezione è prerogativa solo di quel Messia di Nazareth, e allora è caduta in una drammatica depressione vedovile scandita da intervalli di rabbia ben poco adeguati ai salotti buoni solitamente da lor signori frequentati.






A inchiodare Mario Draghi alla sua croce sono stati quei cattivoni dei partiti, che invece di continuare a sottomettersi all’uomo della Provvidenza hanno deciso di riprendere la dialettica parlamentare nel solco di quella Costituzione repubblicana di cui tanti stavano perdendo memoria.
A dirla tutta, il primo a crocifiggersi è stato proprio Draghi, che dopo lo strappo iniziale del Movimento 5 Stelle aveva comunque una maggioranza del 70%, ma ha preferito affondare la nave vaneggiando sulla necessità della presenza grillina: il premier teneva talmente tanto ai 5 Stelle da averne smontato per oltre un anno buona parte della misure, da considerarli meno di zero nell’esecutivo e da provocarli con l’inserimento dell’inceneritore di Roma del DL Aiuti.
A rendere irreversibile il processo di crisi di governo ci hanno pensato poi la Lega e Forza Italia, ma è su Conte che si concentra l’astio feroce dei media e dei tanti orfani del governo dei Migliori. Il leader del Movimento ha semplicemente fatto quello che avrebbe dovuto fare molto tempo fa, dopo aver accettato passivamente di farsi prendere a sberle – con conseguente calo drastico dei consensi – in un governo nel quale non avrebbe neppure dovuto entrare. La bavosa stampa nostrana se la prende col populista di Volturara Appula, tappandosi gli occhi sull’unico populismo emerso in questi giorni, quello di Draghi.






Nel discorso al Senato, il premier ha parlato del Parlamento che deve “accompagnare con convinzione”, degli “italiani che ci chiedono di essere qui” e della “mobilitazione per il governo impossibile da ignorare”. Peronismo e cesarismo allo stato puro, con la delegittimazione dei partiti e della politica accompagnata dall’appello diretto alle masse, che in questo caso però non esistono: l’Italia che lo implora di restare di cui Draghi parla è in realtà una combriccola corporativa e servile di industriali, sindaci e rettori di università, i quali per altro, come ha ben spiegato ieri sul Fatto Tomaso Montanari (tra i rettori che si sono sfilati dalla supplica al monarca), stravolgono la natura stessa delle accademie che per definizione non sono al servizio del potere.
Un populismo delle élites, appunto. La maggioranza degli italiani non ha certo versato lacrime per la caduta di questo governo ammucchiata senza opposizione.
Il Salvatore cullato della banche e dalla grande finanza venuto per salvare la povera Italia derelitta trova oggi forse ancora meno consensi di quando nel febbraio 2021 si insediò a Palazzo Chigi, nel giubilo dei poteri forti. Il bilancio dell’azione dei Migliori è impietoso: peggior riforma della giustizia di sempre, pubblicizzata dall’immancabile “ce lo chiede l’Europa” ma proprio dall’Europa di recente smontata per il rischio di far andare in fumo centinaia di processi; picconate allo stato sociale, con le modifiche al Reddito di cittadinanza, la riforma dell’Irpef che premia chi ha più soldi e la riforma del catasto senza effetti fiscali; niente patrimoniale e niente salario minimo, come desiderano Bonomi e gli amici di Confindustria; tagli alla sanità e alla scuola, con quest’ultima colpita dall’ennesima riforma mostruosa e insensata; ambientalismo di facciata tradito da provvedimenti come il via libera ad inceneritori, rigassificatori come quello di Piombino e caserme militari in parchi protetti come a San Rossore; silenzio quasi totale sulla lotta alla mafia e sulla condizione sempre più difficile di magistrati, vedasi le minacce a Nicola Gratteri.






L’Italia che Draghi lascia vive la peggior inflazione da quarant’anni a questa parte, ha una disoccupazione in crescita, stipendi che scendono e si prepara ad una bomba sociale senza precedenti in autunno; la guerra in Ucraina ha senza dubbio influito sull’acuirsi di tali problematiche, ma è proprio in relazione al conflitto che il governo Draghi ha dato il meglio di sé. L’invio secretato di armi in barba alla Costituzione, la decisione di alzare la spesa militare fino al 2% del Pil, il servilismo più estremo nei confronti della Nato e degli Usa sono stati la punta di un iceberg putrescente che ha navigato senza ostacoli tanto in Parlamento quanto nell’informazione, appiattita nell’elogio perpetuo del Migliore e del suo tocco taumaturgico paragonabile a quello dei re di Francia. Uno di questi, Luigi XV, pare che una volta abbia affermato: “dopo di me, il diluvio”. Nel regno di San Mario invece è da un bel po’ che si affoga.

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