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CAPACI di volere un’altra Italia






Sull’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza di Capaci, una grande stele color terracotta si innalza perentoria verso il cielo. Sulla sua superficie cinque nomi sono incollati sotto lo stemma della Repubblica: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani. Il cratere che li inghiottì alle 17:58 del 23 maggio 1992 è stato ricoperto in breve tempo.

La voragine creata dai 500 chili di esplosivo posti sotto l’autostrada, inseriti in un cunicolo con degli skateboard, adesso neanche la si può immaginare passando di lì; c’è l’asfalto nuovo, c’è il monumento commemorativo, ci sono le bandiere e ad ogni ora le auto in sosta di chi si ferma per una dedica, o una semplice foto. All’apparenza quell’apocalittico Big Bang, generatore non di vita bensì di morte, trent’anni dopo è rientrato senza rumore. Niente però è stato più come prima in seguito alla strage di Capaci, e gli squarci invisibili che si sono creati, di opposta natura, non possono essere colmati da nessuna colata di bitume.

Da una parte c’è lo squarcio positivo, quello della coscienza civile della gran parte degli italiani che si è destata dal proprio torpore, capendo dopo quel 23 maggio che la mafia era un nemico che riguardava tutti, e che il percorso per sconfiggerla doveva iniziare da un movimento culturale radicato in ciascuno; quel giudice strappato alla vita dal tritolo, insieme alla moglie e ai tre giovani poliziotti della scorta, fu per uomini e donne di più generazioni l’interruttore che accese la luce su lavoro della magistratura, sulla realtà della lotta al potere mafioso, sui rischi, la solitudine e le drammatiche conseguenze che colpivano chi si metteva in prima linea senza paura.






Da Capaci, se si guarda nelle coscienze di milioni di persone, è sicuramente nato un Paese migliore. Esiste tuttavia un altro squarcio, cupo, angosciante, terribile, che dopo essere stato aperto dai detriti impazziti di quell’autostrada non si è mai richiuso. A trent’anni dalla strage l’Italia non sa ancora chi siano i veri mandanti. Le sentenze dei due processi giunti a conclusione ci hanno dato i nomi degli esecutori e dei mandanti mafiosi con 24 ergastoli e la condanna di alcuni tra più importanti boss come Riina, Provenzano e Madonia, ma continua a mancare la verità su chi davvero tirava i fili, su quei pezzi di Stato e di politica che erano collusi con Cosa Nostra ed ebbero un ruolo nell’ “attentatuni”.

Un Paese che non riesce a far chiarezza sui misteri più oscuri della propria storia non può definirsi civile. La strage di Capaci, così come quella di via D’Amelio e altre mattanze mafiose (e non solo) rimane avvolta dalla nebbia. Tanti piccoli pezzi sono evidenti, ma non è mai venuta fuori una verità processuale, e i buchi neri persistono: la sparizione dei diari di Falcone e l’intrusione nei suoi uffici a Roma per ripulire i computer, il ruolo di Bruno Contrada, il bigliettino con l’indirizzo del Sisde ritrovato sulla collinetta da cui Giovanni Brusca premette il telecomando, le tre telefonate di uno degli attentatori ad un indirizzo del Minnesota poco prima della strage, il nome di chi informò Cosa Nostra dell’orario d’arrivo, teoricamente segreto, del giudice a Palermo.

Queste e tante altre domande sono in attesa di una risposta. Il torbido intreccio tra Stato e mafia che si andava consumando al crepuscolo della prima Repubblica trova tutt’oggi coperture e appoggi importanti. La trattativa tra i due corpi, messa nero su bianco dalle sentenze sebbene in appello sia stata giudicata un reato per la sola Cosa Nostra, ci ha mostrato che nel 1992, mentre Falcone e Borsellino morivano sotto le bombe, c’erano uomini infedeli che trattavano con il crimine; già da prima d’altronde mafia, servizi segreti deviati, massoneria, eversione nera e politica viaggiavano a braccetto per curare interessi economici e di potere e per realizzare una strategia della tensione.






Finché non ci sarà l’effettiva volontà di fare giustizia e di tirar fuori la verità, saranno indecenti e inaccettabili le consuete passerelle di rappresentanti delle istituzioni che ogni anniversario rispolverano parole di vuota retorica. Anche perché la classe politica attuale non è neppure degna di pronunciare un nome come quello di Giovanni Falcone.

In un Parlamento che da oltre un anno non riesce a promulgare una nuova legge sull’ergastolo ostativo, in una Sicilia dove condannati per mafia come Dell’Utri e Cuffaro sono tornati a dettare l’agenda in vista delle regionali, in un Paese dove gli indegni referendum promossi da Lega e Radicali vogliono colpire la magistratura e abolire la legge Severino per rendere candidabili delinquenti di ogni tipo, la politica deve stare fuori dal 23 maggio.

Che sia la gente, che siano i coraggiosi giudici e giornalisti, che siano i giovani a gridare forte il nome di Giovanni Falcone e degli altri martiri caduti in quel maledetto pomeriggio all’altezza di Capaci.

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