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Elezioni comunali

L’agenda rossa di Paolo Borsellino






Per definirsi fallito un Paese può disporre di varie definizioni. Per il nostro, la più appropriata ci dice che dopo trent’anni non si è ancora riusciti a far emergere tutta la verità sulle stragi che ne hanno cambiato la storia. Il fallimento continua e diventa ancora più marcato col passare del tempo, con le notizie che si accumulano, come quella più recente: il Tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.

E’ stato assolto invece il terzo imputato, Michele Ribaudo. Nessuno o quasi ne ha parlato. La separazione tra Totti e la Blasi ha tenuto campo nell’informazione dei giorni scorsi, mentre oggi tutti quanti, dai media alla politica, si accalcheranno intorno al ricordo della strage utilizzando le solite parole di vuota retorica, di esaltazione ipocrita, di meschina commozione.

Le orecchie di questa disgraziata Italia sono ancora ferme alle 16.58 del 19 luglio 1992, a quel rumore martellante di allarmi che suonano all’impazzata dopo che l’esplosione della Fiat 126 imbottita di tritolo ha dilaniato un budello di strada nel cuore di Palermo.






Siamo ancora fermi a quell’assurdo e disordinato via vai di gente, a quel sovrapporsi di facce che si aggirano sul luogo del crimine o perché ferite, o perché curiose, o perché chiamate a soccorrere, o perché interessate a insabbiare e far sparire: come coloro che eseguirono e sorvegliarono il trafugamento dell’agenda rossa. Ecco, siamo ancora fermi a quel punto. Trent’anni dopo siamo ancora inchiodati a quell’atto simbolico e vigliacco dietro il quale si nascondono probabilmente i segreti della strage di via d’Amelio, della strage di Capaci e di tutta una stagione di sangue legata agli intrecci tra mafia, Stato e poteri occulti.

Non può esserci memoria senza verità. Non possono esserci commemorazioni senza la richiesta forte di giustizia sui veri mandanti della carneficina del 19 luglio. In ogni articolo che dedichiamo ai temi di mafia, specialmente a quelli sugli anniversari delle stragi, mettiamo il tema della ricerca della verità davanti a tutto; tante piccole grida della società civile, di quel mare di coscienze a cui la lotta di Chinnici, Falcone, Borsellino e di tutti i giudici antimafia si rivolgeva in prima battuta al fine di svuotare dal basso il consenso di cui gode Cosa Nostra, possono creare un boato fragoroso in grado di spezzare il muro di misteri, collusioni e segreti indicibili sui quali si regge ancora questa Repubblica.

Di buchi neri, in relazione alla strage di via D’Amelio, ce ne sono tantissimi: le responsabilità e i motivi del depistaggio di Stato immediatamente successivo al massacro (il più grave della storia repubblicana, come lo ha definito la Corte nelle motivazioni della sentenza del Borsellino quater), orchestrato dalla squadra mobile di Palermo di Arnaldo La Barbera che portò ad imbeccare e costringere ad autoaccusarsi lo spacciatore Vincenzo Scarantino; la scelta di La Barbera di far partecipare alle indagini, contro ogni procedura, il Sisde di Bruno Contrada, tra i responsabili della falsa pista Scarantino; i motivi per cui la Procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra non chiamò mai dopo Capaci Borsellino a testimoniare, sebbene egli avesse apertamente dichiarato di essere a conoscenza di elementi importanti sulla strage; i perché dell’assenza di un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la Fiat 126, del mancato confronto tra Scarantino e i veri collaboratori di giustizia che smontavano le sue dichiarazioni e dei dieci “colloqui investigativi” tra la polizia e Scarantino prima che quest’ultimo si autoaccusasse;

i motivi per cui la Questura di Palermo non ordinò mai di rimuovere le auto in sosta da via D’Amelio, nonostante la scorta avesse più volte segnalato il pericolo; ultima ma non per importanza, la sparizione dell’agenda rossa, sottratta dalla borsa di Borsellino e mai più ritrovata e per la quale in molti in questi trent’anni hanno avuto grossi problemi di memoria, dal capitano dei Carabinieri Arcangioli, fotografato con la borsa in mano in una via D’Amelio ancora invasa dai cadaveri e dai rottami, all’ex giudice Ayala, capace di cambiare quattro volte versione sul come e il perché in quegli istanti entrò in contatto con la borsa.






Questi sono solo i principali misteri che avvolgono quel maledetto 19 luglio 1992. Nel fumo nero che saliva dalla via in cui abitava la madre, il volto e il candore di Paolo Borsellino sono però riusciti ad emergere. Si sono salvati il suo fulgido esempio, il suo coraggio vissuto in solitudine, la sua integrità morale, la sua determinazione nel fare il proprio dovere, il suo rifiuto di scendere a compromessi con la mafia proprio mentre pezzi dello Stato tradivano e avviavano una trattativa.

Una delle figure più straordinarie che abbiamo avuto. Tra i tanti modi a disposizione per rendergli omaggio, noi scegliamo di alzare verso il cielo un’agenda rossa, simbolo della verità che ancora, trent’anni dopo, viene nascosta.

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