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Elezioni comunali

Corsa a perdere






Con la morte della regina Elisabetta II le certezze su cui possiamo contare si sono ridotte davvero al lumicino. Nel minuscolo mondo di quelle che rimangono, una svetta imperterrita e inscalfibile: la vittoria della destra alle prossime elezioni del 25 settembre. I sondaggi si sa non sono scienza esatta, e spesso hanno indirizzato le pubbliche convinzioni su strade rivelatesi errate; stavolta però il coro dei sondaggisti è unanime nell’indicare la coalizione idealmente guidata da Giorgia Meloni al primo posto nelle intenzioni di voto degli italiani, e soprattutto con margini siderali di vantaggio sugli inseguitori.

Il numero non trascurabile di indecisi, ancora nel dubbio su quale partito sostenere ma anche soprattutto sul recarsi o meno alle urne (soluzione per la quale opteranno sicuramente milioni di elettori), potrà spostare di poco gli equilibri, e al massimo renderà la vittoria dei favoriti meno larga del previsto. Di che pasta sia questa coalizione che si appresta a guidare il Paese lo sappiamo bene.

E’ la solita, vecchia destraccia che per anni ha governato all’inizio del millennio, un mix di servi berlusconiani, fascisti più o meno ex, leghisti un tempo devoti alle acque del Po’ e ora camuffatisi da patrioti, centristi parassitari senza arte né parte; la dose di impresentabili è la stessa dei tempi d’oro, con una quota enorme di inquisiti e condannati, e i nomi dei leader e dei candidati sono in pratica gli stessi dell’ultimo governo Berlusconi, quello che ci stava conducendo al fallimento.






Così come le facce sono le stesse anche le ricette, le quali comprendono l’eterna flat tax, i favori agli evasori, la becera propaganda xenofoba sull’immigrazione, lo smantellamento della giustizia condito dalle immancabili leggi ad personam per il padre padrone Silvio, sebbene egli sia oramai ridotto ad una grottesca caricatura di se stesso. L’idea che questa destra torni a governare spaventa, non vi è dubbio. Il problema è che chi dovrebbe rappresentare l’alternativa principale sta clamorosamente correndo verso la sconfitta riuscendo ad avere sugli elettori lo stesso effetto attrattivo che può avere uno zampirone per le zanzare.

Il Partito democratico è invotabile e irricevibile non certo da ora, ma ormai da quasi un decennio, se non addirittura dalla sua fondazione, frutto di una fusione a freddo senza prospettive né identità. Con la segreteria di Enrico Letta è avvenuto quel definitivo spostamento nel campo centrista che neppure negli anni di Renzi era riuscito: Letta nipote ha reso esplicita quella natura confindustriale, elitaria e liberista creata col tempo ma mai come adesso divenuta l’orgogliosa bandiera del partito, finito per fare propria l’agenda Draghi (inesistente feticcio sbandierato dopo la caduta del governo dei Migliori) e per fare a gara con la Meloni a chi è più atlantista e filo americano, guerrafondaio e filo israeliano.

Letta si è precluso ogni possibilità, per quanto remota e improbabile, di riacciuffare la destra chiudendo l’alleanza coi 5Stelle, colpevoli di “aver fatto cadere Draghi” dopo aver votato 53 fiducie su 55 a San Mario, per poi accordarsi con Sinistra Italiana, che di fiducie non ne ha mai votata mezza. All’inizio del proprio gioioso percorso suicida Letta aveva imbarcato financo Calenda, salvo poi vedersi schifare dal fenomeno dei Parioli riciclatosi in fretta e furia con Renzi pur di non perdere il treno per il Parlamento.

La tattica prediletta dal Pd è sempre il solito, incorreggibile appello al meno peggio: votate noi perché i nostri avversari sono brutti e cattivi. E fascisti, chiaramente. Il che in parte è di sicuro vero, ma non può essere l’arma di punta di una forza politica che punta a intercettare milioni di voti e a rappresentare, come dice, il mondo della sinistra. Sono i temi che mancano al Partito democratico.






Essi non possono essere le quattro novelle del programma, perché non sono credibili. I dem hanno governato nove degli ultimi dieci anni, realizzando alcune tra le peggiori porcate mai viste sul fronte del lavoro, della scuola, della sanità; neanche quando urlano di voler difendere la Costituzione dalla destra pericolosa che con un’ampia maggioranza potrebbe cambiarla sono credibili, perché fu proprio il Pd nel 2016 a tentare di stuprare la Carta con la riforma Renzi-Boschi-Verdini.

Per di più il Nazareno ha garantito un posto a figure ripugnanti come Di Maio, ripresenta cariatidi democristiane come Casini, ripropone la stessa classe dirigente di stampo renziano che tanti danni ha fatto dal 2013 ad oggi. I milioni di poveri, i milioni di precari, i milioni di cittadini che sopravvivono già a stento e non sapranno come fare da questo autunno – anche a causa di quelle sanzioni alla Russia che Letta a marzo prevedeva avrebbero stroncato Putin e che invece hanno soltanto distrutto la nostra economia – non si intercettano di certo con l’agenda Draghi, con liste di proscrizione di presunti filorussi o con continui al lupo al lupo sul ritorno del fascismo.

L’unica sinistra che si intravede in questa campagna elettorale sta in Unione Popolare e nel Movimento 5Stelle, al netto di Sinistra Italiana che si è accordata con Letta per un piatto di lenticchie, ovvero due o tre seggi. Il resto sono solo squallide figure che corrono per perdere, e che saranno prontamente accontentate il 25 settembre.

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